FATIMA ALLA GUERRA


Woody Allen in un suo vecchio film affermava che le due parole più belle di questo secolo non sono più "Ti amo" ma, é "benigno".

Da quando Fatima ha cominciato a combattere la sua personale guerra contro quel male, che vive di te, si nutre di te, senza farti sapere niente trova alloggio dentro di te e quando lo ha trovato ci si trova così bene che si espande, ti prende per il culo, si auto produce, fino a che un'analisi in più lo smaschera, siamo cambiati tutti.

C'è da dire che grazie alla prevenzione, a medici di base preparati, a strutture attrezzate, i soggetti più a rischio vengono monitorati in modo da essere tenuti sotto controllo. Non si fanno i miracoli, si fa informazione: così si sa che nelle donne è più facile che si sviluppino tumori così e così negli uomini così e cola, nella fascia di età tra tot anni a tot anni........

Ma quando ti becca che sta già li ben posizionato l'unica possibilità è la guerra a tutto campo sia fisica che psicologica.

Di seguito riporto le considerazioni di Fatima nel suo diario. Mi auguro che i medici cialtroni non trovino sulla loro strada gente come loro.


L’INIETTATOIO

La prima volta che sono entrata nella sala di infusione, l’iniettatoio, sono andata dritta verso la mia sedia, mi sono sdraiata senza guardarmi attorno, e ho lasciato la flebo scivolare lentamente nel mio sangue.
Avrei voluto chiudere gli occhi e dormire, avevo con me un libro e la settimana enigmistica ma li ho lasciati giacere sul bracciolo della mia poltrona.
Pensieri in testa zero.
Non guardavo nessuno dei miei compagni di stanza.
“ I tumorati di Dio” è la frase che mi venne in mente. Pensavo che tutti noi avevamo rispetto agli altri qualcosa di più: un tumore, delle cellule impazzite e un’esperienza che ci avrebbe portato alla morte “arricchiti” di nuove prospettive di vita, che non avremmo potuto sperimentare ma che in quel preciso momento ci indicavano nuove strade per una vita che ormai volgeva al termine.
Il ragazzo seduto accanto a me aveva un tumore ai polmoni in stadio avanzato che i medici di un altro ospedale gli curavano da mesi come bronchite.
Si era da poco sposato, moglie casalinga, lui lavora in nero, ora è in mezzo alla strada. Tutti e due sono tornati a casa dai rispettivi genitori-
Non ho chiesto la loro storia, ma si raccontano e mi chiedono di raccontarmi.
Ma ci sono volute tre chemio per cominciare a sciogliermi e raccontare la mia banalissima storia: avevo mal di schiena , mi curavano con gli antidolorifici e poi era un cactus con le spine che premeva sul mio retto e mi procurava metastasi…
Quando il medico me lo ha detto ho pianto. Ma dopo il pianto la liberazione, io ero sicura sin dall’inizio dei miei disturbi, della diagnosi, ma mi sono lasciata trascinare indagini sbagliate per paura. Avevo paura di essere incapace a gestire la mia malattia la morte, il distacco dalle cose terrene.
Ora so come affrontare la malattia.
Ma il dolore ancora no. Il dolore fisico quello che sfianca.
Nelle mie notti in ospedale ho sentito donne urlare:- BASTA! Lasciatemi morire.-
Questo mi terrorizza ancora.
Una notte ho chiamato il medico e gli ho detto:- abbattetemi ora, ora che sono ancora lucida, che ho olfatto, tatto, vista e udito, ora che ancora non vomito e reagisco alla luce del sole, abbattetemi ORA!-
Lui mi sorride e torno alla realtà, i miei figli, il volto sorridente di Paolo che a ogni chemio lascia il lavoro per starmi vicino, e Benni con il suo silenzio che racchiude il suo dolore.
Allora dico: Voglio VIVERE almeno per altri tre anni, a tutte le condizioni .
Perché tre anni? Anche due basterebbero…dai.
La mia vicina di letto è terminale. Ha quarant’anni e tre figlie.
E’ di Marsala. Il suo cellulare squilla in continuazione.
.-La maglietta rossa è nel terzo cassetto…le scarpe sono nel terzo ripiano della scarpiera, le mutandine sono stese nel bagno piccolo ad asciugare…-
Appena finisce di parlare, le lacrime le scendono lentamente. I dolori la rendono contratta. Chiede agli infermieri antidolorifici.
Il suo cellulare è impietoso – Cosa dovete mangiare oggi? Pasta con la salsa, pollo stasera pastina e uovo.
Spegne: ma perché non mi lasciano in pace- dice con voce flebile- almeno mentre sto morendo si possono arrangiare, cercare i vestiti mangiare quello che vogliono, tra una settimana chi dirà loro dove sono le magliette?-
L’infermiera entra e le somministra altri antidolorifici, il suo volto contratto piano piano si rasserena e si addormenta.
Ma il suo cellulare non la da tregua. Vorrei buttarlo nel cesso.
Lasciateci in pace.
Ma non c’è pace per noi tumorati. Vivere con l’idea costante della morte è un tormento.
Mi pongo le stesse banali domande del dopo, come è il dopo? E i miei pensieri, le mie parole, le mie opere, le mie omissioni? Che fine faranno? Tutto nel cesso come il cellulare?
Mi piacerebbe rivedere mio padre e stare un po’ con lui, quante cose avrei voglia di dirgli non ne avete idea. Lui è morto proprio come desiderava. Leggendo il giornale. Infarto e via andare, senza avere preso mai una medicina, senza ospedalizzazioni, aghi, operazioni, protesi, metastasi.
E’ morto con la serenità che meritava.
HO PAURA DELLA MORTE
HO PAURA DEL DOLORE
HO PAURA DEL VUOTO
HO PAURA
Giorno dopo giorno minuto dopo minuto
HO PAURA della morte che mi sta braccando!

testo e foto di © Fatima del Castillo

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