PRERADOVICEVA


Da bambino mia nonna mi raccontava qualcosa sulle foibe ma sia mio padre che mia madre la zittivano, le dicevano che bisognava guardare avanti. Probabilmente la parola d’ordine era minimizzare, non si cercava la pacificazione quanto il quieto vivere: si pensava che parlare di queste cose avrebbe solo aumentato l’odio tra le fazioni e probabilmente avevano ragione. In più il PCI ed i liberatori avevano paura che  raccontare la diaspora degli istriani avrebbe contribuito a mettere in cattiva luce l’esercito liberatore Yugoslavo, quanto la DC, chiesa e conservatori dall’altra parte chiudevano gli occhi sui massacri di civili causati dai bombardamenti alleati. E così per anni ho creduto che le foibe fossero delle fissazioni di mia nonna. Passarono tanti anni fino a quando per la prima volta ne sentii parlare ufficialmente. Per scoprire l’orrore della semplicità: massacro di civili, nascosta da motivi ideologici. 


Agata con il cugino Lucio

Quando la spiaggia di Vergarolla salto’ in aria, per  incuria o, come stabiliranno successivamente delle inchieste internazionali, atto di terrore contro gli italiani di Pola, mia nonna, mia madre e lo zio Luciano, erano già in fuga da qualche mese, tra campi profughi e (pochi) italiani ospitali. Mia nonna terrorizzata dagli stupri etnici aveva costretto mia madre a vestirsi e comportarsi da maschio e questo per i due anni della durata della fuga. Dalla bocca di mia madre, da bambino, non ho mai sentito dire una parola di quel periodo o riguardo a questi fatti.
Agata con il cugino Lucio

No mia madre non raccontava mai niente era sempre sorridente ma con la bocca “cusuta” (chiusa) peggio che un siciliano. 
Ho cominciato a conoscere la storia della mia terra materna dopo essere andato via da casa. Avevo 19 anni e una fitta corrispondenza (ancora conservo le lettere) con mia madre, grande lettrice, grande amante della letteratura mitteleuropea. Tra un libro e l’altro comincio’ a raccontarmi piccoli aneddoti sulla guerra, come avevano trasformato in gioco con il fratello Luciano la paura dei bombardamenti e le attese estenuanti nei bunker, nei rifugi.
Quando  la guerra sembrava finita per loro comincio un triste capitolo. Si parlava genericamente di vendette maturate dall’odio per le angherie subite dai fascisti durante il ventennio ma a poco  a poco si è capito che altri erano gli scopi dell’esercito Yugoslavo di Tito, ferite aperte e mai rimarginate si parlava di sparizioni tra la popolazione, così decisero di lasciare Pola alla volta dell’Italia. 
Pensavano che avrebbero trovato solidarietà in Italia, ma si sa la fame fa brutti scherzi. Quando c’è la fame l’imperativo categorico è pensare a stessi e così è stato. Quando non li prendevano a sassate rimediavano qualche giaciglio per dormire ed era meglio che rischiare di essere uccisi nella propria casa.
L'entrata del palazzo dove viveva mia madre a Pola

Il palazzo di mia madre era in via San Michele, 4 a Pola. Quello che riuscirono a portare via se lo incollarono e il resto lo affidarono a dei parenti. 
Dopo la drammatica guerra dei Balcani (1991- 1996), che per molti di noi giovani reporter è stata una scuola di vita prima ancora che professionale, ho realizzato che mia madre, contrariamente alla nonna e alla Lucy, non era mai più ritornata a Pola e così decisi di organizzare un viaggio con lei in macchina verso l’Istria.
E’ stato un viaggio bellissimo: sono andato a prenderla all’aeroporto di Roma e da li ci siamo diretti sull’Adriatica, senza fretta, fermandoci a mangiare nelle trattorie  dei camionisti (a mia madre dicevo che era l’unica donna e doveva stare attenta a rimanere sola), e a raccontarci tante cose, tanti particolari che ringrazio di avere appreso.

Agata si è persa tra i ricordi



In uno dei viaggi in Yugoslavia ero tornato a Pola per ritrovare la casa di mia madre e tra tante difficoltà (nel frattempo la strada aveva cambiato nome da  via San Michele a  Preradovica) l’avevo trovata e non nascondo che mi sono emozionato. Non capivo come mai Agata (mia madre) non avesse mai avuto la curiosità, il desiderio, in 50 anni di tornare nei luoghi dove era nata e cresciuta. Durante il viaggio glie lo chiesi e  mi rispose che sempre ne aveva avuto voglia, ma la paura di tornare aveva avuto il sopravvento sui ricordi che si portava dentro: dalla spiaggia di Saccorgiana alle passeggiate vicino l’Arena, prime uscite coi ragazzi.

Per capire l’epoca è importante che faccia presente che la famiglia di mia nonna era nata austriaca e che il padre è stato uno degli ultimi ufficiali della marina austriaca : dopo la caduta dell’Impero austroungarico i fratelli di mia nonna rimasero fedeli al mare e diventarono tutti ufficiali di marina civile italiana continuando a navigare per il mondo. 
Dopo una sosta a Monfalcone per  prendere il cugino di mia madre, Lucio, e la sua famiglia, la carovana si è spostata verso il  confine con la Slovenia. Mia madre emozionata aveva smesso di parlare, ci guardavamo negli occhi chiari, i suoi, bellissimi di un azzurro trasparente proprio come l’acqua del mare istriano, sentivamo gli odori e i colori della terra avvolgerci ed alla fine arriviamo a Pola. Abbiamo cominciato con il classico giro turistico per la città: la maestosità dell’Arena, il Tempio di Augusto per poi dirigerci verso la sua casa. Io avevo già percorso l’itinerario ma anche se con qualche difficoltà siamo arrivati in quella che pe 15 anni è stata la sua dimora. Spalleggiata dal cugino Lucio (ufficiale di Marina in pensione che aveva girato tutto il mondo con carghi, navi passeggeri, petroliere, che dissimulava l’emozione  facendo battute spiritose, arrivammo al portone. Gli occhi di mia madre si inumidirono fino alle lacrime. 
- Che faccio mamma, citofono?- dico io.
E lei, dolcissima come sempre, per paura di disturbare, di infastidire, diceva no guardiamo la casa da fuori.
Ma non avevo fatto tutti questi chilometri per vedere l’esterno, quello lo avevo già visto. Volevo vedere l’interno sentivo che quei luoghi mi appartenevano, che dovevo visualizzarlo, non dico per capire mia madre e la sua sensibilità , ma almeno per prendere parte dei suoi ricordi.
Citofono parlando un misto di friulano e le 4 parole di serbo che conoscevo con la signora che viveva nella casa per farci  entrare vincendo la sua diffidenza (quando le ho detto per commuoverla e farci entrare in casa che mia madre era nata li, ho ottenuto il risultato contrario di  farla insospettire, di pensare che fossimo venuti a rivendicare la nostra proprietà).

Lucio, Agata e Annamaria
Varcata la soglia mia madre è stata un fiume in piena ed  i ricordi uscivano fluenti dalla sua memoria raccontando episodi della casa, come le corse tra le stanze col fratello, ai quali anche il cugino si è unito, ricostruendo l’immagine una famiglia austroungarica contaminata da sloveni, giuliani, istriani. 
La signora sospettosa fino a quel momento vedendo quel gruppo allegro e giocoso si è rilassata tanto che si è offerta di mostrarci anche delle parti della casa ristrutturate che dopo la fuga di mia madre erano state danneggiate.
Ho nel cuore gli occhi umidi di mia madre quando ci siamo ritrovati sulla strada del ritorno e quello sguardo nel quale passavano tutte quelle persone della sua vita che  che ormai non c’erano più: dalla nonna a mio padre, agli amici con i quali andava sulla spiaggia (frequentava la scuola con Tito Stagno e ritrovava la sua riservatezza  nelle canzoni di Sergio Endrigo). La disumanità era adesso alle spalle ed  ero riuscito a farle ritrovare la sua adolescenza e la sua memoria. 


Il regalo più bello che mi potevi fare, disse.
Ma in verità il regalo me lo ha fatto lei consegnandomi i suoi ricordi di adolescente sotto le bombe e la violenza della “pulizia etnica”.
Luciano del Castillo
Roma, 10 febbraio 2021



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