L’industria del dolore



Lo scandalo che coinvolge alcune note ONG che si occupano di aiutare le popolazioni colpite da  povertà, da disastri naturali, etc ha lasciato molti con l’amaro in bocca. Ma come, si chiede la opinione pubblica, versiamo denaro per aiutare i più deboli ed invece queste persone li sperperano per andare con le prostitute? Ma come è possibile che i volontari facciano queste cose?
Come in tutti i settori l’industria del dolore ha le sue pecore nere, i suoi punti deboli il primo dei quali risiede nella selezione del personale. Una qualsiasi grande organizzazione umanitaria, ha bisogno, oltre che dei volontari e delle persone di buona volontà, anche  di una enorme quantità di manodopera specializzata che serve ai per organizzare, costruire,  curare. Tradotto in termini pratici servono medici, infermieri, ingegneri, geometri, elettricisti, falegnami, contabili etc…
Per una parte di questo personale si tratta solo di lavoro. Lavoro all’estero, ben pagato, che non ha niente a che fare con la carità, con l’altruismo. Ma la gente pensa che per lavorare per  “Oxfam” “Save the Children”, per citarne due delle più famose, devi essere una persona incline alla beneficenza. Niente di più sbagliato. Sono solo persone che hanno trovato un lavoro e magari anche un buono stipendio. Per cui non stupitevi che anche tra le ONG ci siano mele marce. Il volontariato si fa quotidianamente rispettando le persone che ti circondano, aiutandole, curandole. Anche con i conti correnti, ma soprattutto ci deve essere un rapporto diretto tra le persone: un sorriso fa molto di più che elemosinare qualche soldo. Spendere una parte del proprio tempo per gli altri serve anche a chi il tempo lo regala.
Questo stupore nell’apprendere che anche le ONG fanno “le cose brutte” mi fa venire in mente un altro lavoro in cui spesso si crede che chi lo fa dev’essere attratto dal Sacro Fuoco della giustizia sociale e della lotta alle ingiustizie. E’ il giornalista e il fotografo. Una volta gli inviati veri (come Ryszard Kapuściński) andavano a proprie spese a raccontare per esempio, l’Africa. Poi c’erano gli inviati dei network occidentali che avevano più soldi che comunque si facevano mandare nei posti a seguito di storie che interessavano il mondo intero, ma anche in loro si trovava lo spirito umanitario, la voglia di raccontare i cambiamenti e le ingiustizie. E così “il circo mediatico” si incontrava nei posti più caldi del mondo per raccontare, far conoscere angoli del mondo, che nessuno magari conosceva, dove una guerra o una carestia, quelli che oggi chiamiamo disastri umanitari. C’erano i lettori che leggevano e guardavano le rozze, ma efficaci, immagini di quei disastri e il servizio di informazione arrivava attraverso i giornali, le televisioni, gli speciali su un argomento. Adesso l’industria del dolore ha bisogno di immagini forti e di premiare chi riesce a fare impietosire di più, ai colori del Caravaggio o alla Pietà del Michelangelo, ma del contenuto, non interessa più ne ai lettori ne’ tantomeno ai premiati fotografi e giornalisti. Oggi premi e mostre e festival non raccontano l’orrore e il dolore, ma premiano  ed espongono il più bell’orrore e dolore che siano stati ripresi nel corso di un anno da fotografi che non hanno più come riferimento i lettori, ma giurie di premi e direttori di festival.
E tutti insieme non pensiamo più ai morti e alle ingiustizie, ma come siamo stati bravi a raccontarle. I premi per i fotografi e per i giornalisti sono come le stelle Michelin per i cuochi. Tutto fumo e niente arrosto.

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